Biografia

Bruno Zevi nasce a Roma nel 1918. Frequenta il liceo «Tasso» e diventa amico fraterno di Mario Alicata e Paolo Alatri. Dopo la maturità si iscrive alla facoltà di architettura.
A seguito delle leggi razziali, lascia l’Italia nel 1939 per recarsi prima a Londra e poi negli Stati Uniti. Qui si laurea presso la Graduate School of Design della Harvard University, diretta da Walter Gropius, e scopre Frank Lloyd Wright, della cui predicazione a favore di un’architettura organica rimarrà acceso sostenitore per tutta la vita.

A New York, affiancato da Aldo Garosci, Enzo Tagliacozzo, Renato Poggioli e Mario Salvadori, dirige i «Quaderni Italiani» del movimento Giustizia e Libertà: quattro numeri, fra il 1942 e il 1944, distribuiti illegalmente al di qua delle Alpi con la complicità dell’Intelligence Service. Segue l’apostolato dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, assassinati a Parigi nel 1937. Ricorda Massimo Teodori: «La profonda empatia per i Rosselli non derivava a Zevi soltanto dalla comune matrice ebraica e dall’assunzione del socialismo liberale come una teoria che aveva conciliato due elementi apparentemente contrapposti. Era anche la scoperta di un modello umano che poneva al centro della propria vita la necessità e l’urgenza dell’azione per concretare idee e perseguire ideali».
Dagli Usa, con lo pseudonimo Bruno Archi, scrive infatti nel 1943: «La tragedia non è tanto che ci sia il fascismo; la tragedia è che ci sia il fascismo, quando i fascisti sono tanto pochi. L’indifferenza, l’apatia, l’assenteismo – in tutti noi – sono forse peggiori del male». Nello stesso anno riesce a tornare in Europa a bordo di una nave militare che approda a Glasgow. In attesa dei permessi necessari per il rientro in patria, vive da rifugiato a Londra dove, su incarico dell’esercito degli Stati Uniti, progetta accampamenti militari «prefabbricati» in vista dello sbarco di truppe in Normandia e, su richiesta dell’Intelligence, gestisce la radio clandestina Giustizia e Libertà. La trasmittente, però, ha vita breve: Eisenhower ne ordina infatti la chiusura ritenendola dannosa per gli obiettivi degli alleati. Frequenta intanto la biblioteca del RIBA (Royal Institute of British Architects) raccogliendo i materiali necessari alla stesura del suo primo libro. (1933-1944)

Nel 1944 rientra finalmente a Roma: partecipa alla lotta antifascista nelle file del Partito d’Azione, promuove l’APAO (Associazione per l’Architettura Organica) e, l’anno successivo, fonda la rivista «Metron». È il 1945. Mentre il Senato accademico dell’Università di Roma convalida la sua laurea di Harvard, dà alle stampe Verso un’architettura organica, pensato e scritto durante l’ultima parentesi londinese.
A guerra finita lavora per le elezioni amministrative romane, nella campagna a sostegno del Partito d’Azione, e apre lo studio professionale con Luigi Piccinato, Enrico Tedeschi, Cino Calcaprina e Silvio Radiconcini. Sempre nel 1946, con Pier Luigi Nervi e Mario Ridolfi, partecipa alla redazione del Manuale dell’Architetto per conto del CNR e dell’USIS con l’intento dichiarato di realizzare un compendio di tecnologia edilizia funzionale all’aggiornamento dei professionisti italiani che il fascismo aveva escluso per anni dai circuiti internazionali. La preoccupazione per l’isolamento culturale degli architetti non viene mai meno e a dicembre del 1947, al Primo Congresso nazionale delle APAO, così conclude la sua relazione: «Il movimento organico non è storicamente, e meno ancora nelle nostre intenzioni, un -ismo d’avanguardia. […] Gli architetti organici tentano di fondere i valori della nostra tradizione con le moderne istanze sociali, ricomponendo la dicotomia tra cultura e vita che da un secolo separa gli artisti dal popolo e proponendo una “terza via” aperta e problematica, libera, umana. Questa è la nostra battaglia per un’integrazione culturale e architettonica, per un assetto comunitario migliore. Se ne avremo il tempo, la vinceremo. Altrimenti, ognuno di noi potrà scegliere di ritirarsi per scrivere un nuovo “discorso sul metodo” oppure, sulle orme di Pagano, abbandonare il tavolo da disegno e la penna, per fare la rivoluzione».

Il 1948 è decisivo: pubblica Saper vedere l’architettura e, presa la libera docenza, inizia l’attività universitaria. È professore di storia dell’architettura prima allo IUAV di Venezia poi, dal 1963, alla facoltà di architettura di Roma. Storia dell’architettura moderna è invece del 1950; sino all’ultima del 2001, ne usciranno ben dieci edizioni regolarmente aggiornate.
Dal 1951, per diciotto anni consecutivi, è segretario generale dell’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica) alla cui presidenza designa prima Adriano Olivetti e poi Camillo Ripamonti. Il distacco dal movimento di Comunità è, a suo dire, netto e perentorio, «non fosse altro perché ne fanno parte troppi architetti bramosi di ottenere incarichi professionali dalla Olivetti». (1945-54)

Il passaggio da «Metron» a «L’architettura – cronache e storia» avviene nel 1955. La dichiarazione di intenti è nell’editoriale del primo numero: «creare una rivista che rifletta l’intera gamma degli interessi architettonici: da quelli politici a quelli artistici, da quelli professionali a quelli storici, che saldi le esperienze contemporanee con la tradizione, che integri la coscienza dell’arte attuale con lo studio, condotto con moderna sensibilità, del passato». Nello stesso anno inizia la collaborazione con «L’Espresso» come titolare della fortunata rubrica di architettura che curerà sino alla morte.
Nel 1959 fonda l’IN/ARCH (Istituto Nazionale di Architettura) per il quale auspica la funzione trainante di forum per tutte le forze che producono architettura. «Deve essere un centro dove i vari personaggi della scena architettonica, dagli industriali ai giornalisti, finora isolati, trovino un canale di comunicazione, la sede di sinceri e chiari dissidi, lo strumento per rompere la segregazione», proclama nella seduta inaugurale.

Dal 1960, nonostante l’intenso lavoro per la redazione di monografie, saggi e importanti voci dell’Enciclopedia Universale dell’Arte, rinsalda il legame con il mondo della progettazione. «Professionista, no; ma neppure rifugiato negli studi storici per impotenza creativa», confessa in Zevi su Zevi. Nel 1961 apre infatti lo Studio A/Z con Errico Ascione e Vittorio Gigliotti – gli stessi con cui, nel 1964, realizza la biblioteca Luigi Einaudi a Dogliani – e, sei anni più tardi, con Vincio Delleani, Mario Fiorentino, Riccardo Morandi, Vincenzo, Fausto e Lucio Passarelli e Ludovico Quaroni, fonda lo Studio Asse per le ricerche sull’Asse Attrezzato e il nuovo Sistema Direzionale Orientale della capitale. Nel 1964, pochi mesi dopo il suo ingresso alla facoltà di architettura di Valle Giulia, organizza al Palazzo delle Esposizioni di Roma una memorabile mostra sulle opere architettoniche di Michelangelo al fine di esaltarne l’eresia «conculcata dall’Inquisizione». Proprio su Michelangelo e il suo messaggio rivoluzionario, dissipato e mortificato dai critici, aveva magistralmente argomentato nella prolusione tenuta al Rettorato della Sapienza il 18 dicembre del 1963. (1955-64)

Attività didattica, impegno civile, ricerca storica e militanza politica convivono sempre organicamente all’interno di un personale programma creativo: nel 1966, mentre inizia un decennio di presidenza della Consulta della Comunità ebraica di Roma, entra a far parte del comitato centrale del partito unificato Psi-Psdi, da cui si ritirerà due anni dopo a seguito della scissione tra Psi e Psdi; fra il 1970 e il 1973 fonda l’Istituto di Critica Operativa e scrive Il linguaggio moderno dell’architettura da cui scaturiscono le «sette invarianti» ovvero le anti-regole dell’architettura democratica (1965-77); nel 1977 redige la Carta del Machu Picchu, «revisione anti-illuministica» della corbusierana Carta di Atene stesa nel 1933; nel 1987 è eletto alla Camera dei Deputati nella lista del Partito Radicale di cui, fra il 1988 e il 1991, sarà anche presidente. Inaspettatamente, a novembre del 1979, si dimette dall’insegnamento. Nell’intervista all’«Espresso» così conclude: «L’università italiana è un paradiso per i professori: una splendida gabbia materna che ti protegge senza reprimerti, perché è tutta sfasciata e quindi consente di fare i comodi propri […]. Considero quest’atto un dovere civile, in positivo, una denuncia incisiva, un momento necessario della battaglia condotta fin qui […]. Ormai non si tratta più di “riformare” l’università, ma di rivoluzionarla, cioè di reinventarne le strutture. A tal fine, occorrono iniziative temerarie, anche illegali, che presuppongono una stretta alleanza tra universitari e intellettuali liberi. Il mio è un atto, lacerante, di ottimismo».
Con gli anni ottanta inaugura un’altra stagione feconda: riceve onorificenze e riconoscimenti in ogni parte del mondo; coordina le due basilari collane «Universale di Architettura» e «Comunicare l’architettura»; conduce l’acerrima battaglia contro l’imbroglio storico-critico-ideologico del post-modern al ritmo sferzante di conferenze, saggi e articoli. «Detestava il compromesso, sentiva il “piacere dell’onestà”, il “gusto” del rigore, in modo inconsueto […]. Procedeva, criticamente, con la severità – aspra e distaccata – di un cavaliere dell’Apocalisse; mai (come si è detto) per “risentimento”. Fermo restando che l’identificazione della categoria estetica con quella teologica lo spingeva – necessariamente – alla condanna dei falsi profeti, dei “tombaroli” del passato, degli accademici tradizionali o “abusivi” del postmoderno. Come dargli torto?» confessa nel 2001 Pierluigi Giordani.
Sul «Corriere della sera» del 15 maggio 1983 scrive infatti Zevi: «A me sembra che questo sia un momento pericoloso, in cui si tenta di far regredire il paese sia sul terreno politico che su quello culturale. Non solo la destra e il centro, ma anche un vasto settore della sinistra stimolano la restaurazione; basti pensare che, in architettura, la neo-accademia e il postmoderno si incarnano in personaggi della sinistra. Di fronte a uno sfascio del genere, gli intellettuali non possono stare alla finestra, aspettando di vedere come andrà a finire. L’atmosfera dell’università e dell’industria culturale è già irrespirabile. Gli uomini liberi devono scuotersi: è in gioco il ruolo dell’Italia nel circuito della cultura occidentale». A dicembre dello stesso anno, al RIBA, nel discorso Architecture versus Historic Criticism, perfeziona uno dei passi fondamentali del suo dialogo con il passato: «Gli architetti moderni non hanno mai commesso crimini contro il passato. Li hanno commessi invece gli accademici che esaltavano retoricamente l’antichità. Non sono stati Arnolfo di Cambio o Brunelleschi a distruggere i monumenti greci e romani, ma i maestri dell’Alto Rinascimento che li misuravano con reverenza e interpretavano Vitruvio come una kabala. Non fu un architetto del ciclo Arts & Crafts o Art Nouveau o protorazionalista a fracassare il cuore di Roma erigendo l’orribile monumento a Vittorio Emanuele, ma Giuseppe Sacconi, studioso di modanature etrusche e classiciste. Non fu Terragni ad aprire l’atroce via della Conciliazione adducente a San Pietro, ma Marcello Piacentini, il capo degli architetti fascisti, il corruttore del movimento moderno in nome del classicismo. Anche durante la dittatura di Mussolini, quando gli architetti moderni intervenivano nei centri storici, producevano opere come la Casa del Fascio a Como o la Stazione ferroviaria di Firenze, che dialoga ancora gentilmente con l’abside di Santa Maria Novella. Ciò comunque non è sufficiente per assicurare un fertile scambio tra architettura e storia. Di cosa abbiamo bisogno? Sappiamo che la storia può essere usata per qualsiasi scopo, anche il più reazionario. Non furono soltanto Hitler, Stalin e Mussolini a sproloquiare in nome della storia. I rivoluzionari francesi predicarono un revival classico, Robespierre mitizzò Atene, e l’estrema sinistra lo attaccò mitizzando Sparta. Così, nell’alterco fra Atene e Sparta, il classicismo arrivò sulla scena, con Napoleone. Il problema è che in ogni età, per ogni generazione, la storia deve essere riesaminata e riscritta alla luce dell’arte contemporanea». (1978-89)

Gli anni novanta sono intensissimi. Mentre organizza le file del Partito d’Azione, rifondandolo, dedica quasi un quinquennio alla stesura di Storia e controstoria dell’architettura in Italia, pubblicato nel 1997, la cui versione ampliata Storia e controstoria dell’architettura esce nel 1998. In quelle pagine, come lui dice, è la conclusione del «suo» programma di lavoro. A Modena, nel 1997, al convegno «Paesaggistica e grado zero della scrittura architettonica» sferra l’ultimo attacco e celebra la vittoria definitiva del decostruttivismo: «Il percorso del secolo si conclude in modo inaspettato, splendido. Eravamo un’infima minoranza di individui isolati. Oggi guidiamo la maggioranza vincente […]. Le vittorie di Hecker, Koolhaas, Eisenman e altri non riguardano solo gli autori dei progetti, ma le giurie, i committenti, l’opinione pubblica che approva verdetti una volta giudicati scandalosi».
Muore a Roma il 9 gennaio 2000 (pubblicata in: B. Zevi, Cesare Cattaneo, 1912-1943, Archivio Cattaneo, Cernobbio 2007) (1990-2000).