
Mi hanno chiesto ripetutamente di documentare quanto avvenne nei prelittoriali delle arti figurative a Roma e poi nei littoriali di Palermo. Ho rifiutato fin qui, ed ora lo faccio malvolentieri. La mia partecipazione alle lotte studentesche contro il fascismo, al liceo Tasso e nel periodo universitario, fu intensa, ma si è arrestata nel 1940 quando, in seguito alle leggi antisemite, mi trasferii a Londra e, più tardi, negli Stati Uniti. Gli altri invece rimasero, affrontando la battaglia feroce che si svolse durante la guerra e l’occupazione tedesca. Rispetto ai drammatici eventi successivi, la vicenda dei littoriali 1938 appare del tutto trascurabile; perciò non ne ho mai scritto. A Mario e soprattutto a Ruggero che insisteva con la sua caratteristica tenacia, rispondevo: «Raccontateli voi quegli episodi. Io ne sono stato protagonista in una stagione così breve che non posso, non debbo parlarne». Zangrandi però aveva ragione osservando: «Proprio perchè abbiamo vissuto tante altre esperienze, la nostra testimonianza non può essere precisa come la tua. Inoltre, si tratta di architettura, e nessuno di noi è architetto. È un dovere per tutti, ciascuno nel campo specifico, ricordare le azioni salienti di quegli anni».
Nel volume “Il lungo viaggio attraverso il fascismo” Contributo alla storia di una generazione, Zangrandi accenna in più punti ai littoriali di Palermo ma, non avendovi partecipato, ne coglie l’importanza generale, non quella attinente alle singole discipline. Alicata ne parla nel “profilo autobiografico” incluso nell’antologia “La generazione degli anni difficili” e nella raccolta degli “Scritti letterari”. Il convegno delle arti figurative fu, senza dubbio, il più turbolento. Ciò dipese dal fatto che molti di noi avevano deciso di iscriversi al GUF con profonda riluttanza e solo al fine di intervenire ai littoriali compiendo atti eversivi. Superato, non senza sforzi, il puritanesimo che ci aveva tenuto lontani fino ad allora dalle organizzazioni universitarie fasciste, dovevamo dimostrare, nel modo più chiaro, inequivocabile e clamoroso; per questo motivo indossavamo il giubbetto nero del GUF.
Ero stato l’ultimo del nostro gruppo a iscrivermi. Non perché fossi politicamente più intransigente degli altri, ma per la ragione opposta. Mi occupavo di politica solo perché la politica si occupava, in grado invadente, di noi. Ero diventato antifascista leggendo i libri di Benedetto Croce e di Adolfo Omodeo. Mi impegnavo nella lotta clandestina perché un giovane intellettuale non poteva farne a meno; ma, fino al 1937, ritenni che la nostra condotta dovesse essere trasparente e incontaminata, escludendo la camicia nera.
Furono i littoriali di Napoli del 1937 a rimuoverci da questo rigorismo. Andammo con Mario Alicata per renderci conto del loro significato e ne rimanemmo stupiti. I littoriali erano davvero, come si diceva, la riunione annuale della gioventù antifascista; anzi, costituivano l’unica grossa occasione per incontrarci, scambiare informazioni e idee, programmare un lavoro comune fra i vari atenei. Lì constatammo che l’essere vestiti in borghese implicava un forte handicap: eravamo troppo facilmente individuati, cercavano di impedirci di entrare nelle sale dei dibattiti e comunque di prendere la parola; paradossalmente, persino i nostri amici antifascisti ci guardavano con un certo sospetto, non afferrando il senso del nostro puritanesimo. «Per questa cocciutaggine di non volervi iscrivere al GUF, siete paralizzati e non ci date un minimo di aiuto. Credete forse di avere il monopolio dell’antifascismo voi due? Il vostro è un atteggiamento aristocratico e platonico. Noi invece non abbiamo paura di sporcarci perché, lottando contro il fascismo nelle condizioni più efficaci per farlo, cioè in camicia nera, concludiamo assai più di voi».
Tornando a Roma, meditavamo perplessi su queste argomentazioni. Alicata, pochi giorni dopo, prese la tessera del GUF. Io resistetti ancora per qualche mese; poi, nell’autunno, alla vigilia dei prelittoriali di Roma, spinto anche da Antonello Trombadori che si presentava candidato, mollai.
Il tema proposto per il convegno di critica artistica riguardava i “Caratteri di un’arte fascista che derivi i suoi motivi e la sua essenza dalla grande tradizione italiana”. Decisi subito di ignorare l’aggettivo “fascista”, sostituendolo con quello di “moderna”; così avrei denunciato nella forma più polemica il rifiuto del tema. C’era poi il problema della “grande tradizione italiana”. Il fascismo, in architettura, si richiamava ad una sola tradizione: quella del classicismo romano, della retorica imperiale. Dunque, dovevamo condannare la romanità così intesa, con aperto disprezzo.
La mia relazione a Palazzo Braschi, a ripensarla dopo tanti anni, doveva essere molto ingenua. Non mi vergogno di confessare che, pur frequentando il terzo anno della Facoltà di Architettura, e avendo preso 30 e 30 e lode negli esami di storia architettonica, ignoravo completamente gli scritti di Franz Wickhoff e Alois Riegl, quindi tutto ciò che di serio ed originale era stato elaborato in merito al linguaggio dell’antica Roma. Nessuno ce ne aveva mai parlato: in una scuola diretta da Marcello Piacentini, l’architettura romana non significava la scoperta dello “spazio interno” e “il modo del narrare continuo”, ma la megalomania del potere, il gigantismo dimensionale, la volgarità marmorea, insomma tutto quello che poi si riverberava nel monumentalismo delle opere del regime.
Quest’ignoranza tuttavia era utile in quel momento, ai fini che mi ripromettevo di raggiungere. Evitava i “distinguo” che farei oggi. Il fascismo s’ispirava alla romanità? Ebbene, bisognava denigrarla senza appello, senza neppure l’attenuante di un possibile recupero.
A quale “tradizione” poteva attingere un’arte autenticamente “moderna”? Facciamo l’inventario delle varie ipotesi. Il mondo greco-romano? No, assolutamente: è falso, a servizio dello Stato e non del cittadino. Il mondo del Rinascimento? Nemmeno: è tessuto di compensazioni sovrastrutturali e ipotecato dall’assioma di un’armonia tra l’uomo, la natura e Dio, che a noi appare ridicola. L’età barocca? Esclusa, perché scenografica, spettacolare, esteriore, vanitosamente gesticolante. E allora? C’è una sola tradizione cui ci possiamo richiamare e, non a caso, è sistematicamente obliterata: quella del Medioevo, dell’architettura civile del Duecento e Trecento, descrittiva, popolare, flessibile, modesta, corale, a scala umana, nemica dell’ “ordine” preconcetto e degli “ordini”, anzi disordinata, libera da canoni e dogmi sintattici, simmetrie e proporzioni. Dobbiamo spogliarci di tutta la zavorra romanista ed anche di quella “umanistica” che ci ha procurato innumeri disgrazie e ristudiare il Medioevo che offre l’unico alimento utile per lo sviluppo di un’architettura “moderna”. Questo, telegraficamente, il senso del discorso che durò più di un’ora. A riferirlo così viene da arrossire. Chiedo scusa all’architettura adrianea, al tardo-antico, a Brunelleschi, Michelangiolo, Palladio, Borromini, invio un pensiero pentito a Biagio Rossetti di cui, in quel tempo, ignoravo persino l’esistenza. Ma, dopo essermi cosparso il capo di cenere, sono felice di aver pronunciato quel discorso: è il più calzante, e il più rischioso, della mia vita. Sul terreno dell’intuizione, è anche il più intelligente. Allora io non sapevo che il movimento architettonico moderno, con la riforma Arts and Crafts promossa da William Morris a metà del secolo scorso, era proprio scaturito dalla cultura medievalista e che questa aveva costituito lo strumento per combattere il classicismo neorinascimentale imperante in Europa. Non sapevo che i principali esponenti della nuova architettura si erano ispirati al Medioevo. Non sapevo niente, ma puntavo su un’ipotesi giusta, già collaudata nella storia culturale. Del resto, nel 1938 sostenere che bisognava trarre incentivi dall’architettura del libero comune medievale significava propugnare la tesi più radicalmente antifascista. La commissione giudicatrice, di cui faceva parte Mario Rivosecchi, notoriamente avverso al regime, nominò prelittori per Roma Antonello Trombadori e me. Uscito da Palazzo Braschi, fui attorniato da una decina di giovani che non conoscevo e che si dimostravano entusiasti del mio comportamento. Aldo Natoli era esaltato: «Hai parlato per un’ora sul tema dell’arte fascista, senza mai dire fascista! Incredibile! E hai pure vinto i prelittoriali! Siamo in un paese di pazzi!». La mattina dopo ci vedemmo a casa di Paolo Bufalini, per poi recarci all’Aventino da Pietro Amendola e concordare la fusione dei gruppi antifascisti universitari. Nacquero così le iniziative per aiutare la Spagna repubblicana, la manifestazione contro Virginio Gayda all’indomani dell’Anschluss, i rapporti con Antonio Giolitti, Pietro Ingrao, Lucio Lombardo Radice, Bruno Sanguinetti. Ma questo non c’entra con l’architettura.
A Palermo fui molto cauto. Ripetei la mia relazione con la stessa intransigenza, ma poi mi tenni in disparte. Capii che i gerarchi, dopo l’esperienza di Napoli, non avrebbero permesso che il convegno delle arti figurative si trasformasse di nuovo in un tumulto antifascista. Occorreva dunque stare attenti ai tranelli e ritirarsi al momento opportuno. A livello nazionale, la giuria era interamente composta di fascisti. Includeva persino Giuseppe Pensabene, critico di architettura de “Il Tevere” e di “Quadrivio”, uno sciagurato che, dopo aver scritto alcuni saggi a favore del movimento moderno, si era venduto a Piacentini e poi divenne un fervente antisemita. Quando, terminata la mia relazione, Pensabene mi apostrofò gridando: «Sei un antifascista!» (il meschino era convinto di insultarmi), la sala affollatissima esplose. Urla di ogni genere, rovesciamento di banchi, corsa verso la cattedra della giuria, invettive irripetibili e minacce. Al confronto, la baraonda di Napoli sembrava un idillio. Ma, proprio nel momento in cui i commissari, terrorizzati, cercavano di mettersi in salvo, si spalancarono le porte di fondo, qualcuno ordinò «Attenti!», e fece il suo ingresso Fernando Mezzasoma, il segretario del GUF. Assunse la presidenza con sussiego e paternalismo, affermando che tutte le idee, anche le più eterodosse, erano legittime a condizione che chi le sosteneva si dichiarasse fermamente fascista. Intuii subito dove voleva arrivare, mi ritirai lentamente in seconda fila, poi in terza, poi sgusciai fuori dal gruppo degli attaccanti e raggiunsi l’uscita. Feci in tempo a sentire Mezzasoma che domandava con voce scultorea: «Voi siete tutti fascisti, non è vero?», e gli altri, incastrati lì senza scampo, costretti a rispondere: «Sì!Sì!».
La notte, a casa di Nino e Basilio Franchina, riunione degli antifascisti di tutt’Italia, discussioni e programmi d’azione per il futuro, accordi sui collegamenti da garantire. Non avevo più alcuna perplessità: eravamo tutti in camicia nera e tutti antifascisti. Nessuno ha mai tradito o rinunciato a lottare contro la dittatura.
Per me, i prelittoriali di Roma e i littoriali di Palermo non furono soltanto un’esperienza politica fondamentale. Segnarono un cammino culturale che ho seguito costantemente. Me ne sono accorto a distanza di decenni. Quando, nel 1973, ho cercato di codificare il linguaggio moderno, o anticlassico, dell’architettura, per individuare le sette “invarianti”, constatando che la prima, la più importante, quella che condiziona tutte le altre, è “l’elenco” o “inventario” delle funzioni, derivante dalla rilettura che i pionieri del rinnovamento ottocentesco avevano condotto sui testi medievali, ho ripensato all’ormai lontano 1938, ai littoriali, a Mario Alicata a Ruggero Zangrandi. Con soddisfazione e tristezza. Felice di riscontrare che tutto il mio lavoro era legato alla lotta antifascista, cioè che la ragione architettonica sgorgava sempre, come a venti anni, dalla ragione civile. Melanconico per due motivi: conduciamo sempre la stessa battaglia contro il classicismo fascista, forse con armi più affilate e mature, ma in stato di minoranza; e senza gli amici fraterni, quelli che insistevano perché raccontassi questo episodio e che ora, quando li avrei accontentati, non ci sono più.